La Passione e la Resurrezione secondo Marco (14,1-16,8)
Ecco un invito alla Gioia, quella che sgorga dal Vangelo.
Un invito a rallegrarti, anche se la materia è fin troppo seria e importante.
È l’invito a metterti a leggere la Passione secondo Marco, amico,
chiedendo, domandando una Luce.
Non leggerla se pensi solamente di leggerla così,
come una pia lettura da catechismo d’altri tempi.
Non leggerla così, altrimenti, amico mio,
arriverai ad un punto in cui non comprenderai che cosa Marco voglia dire. A te.
Si, a te in questo momento della vita, in questo tuo cuore pieno di esperienze e di emozioni.
A te.
Sì, a te che conosci già questa storia che è sempre la stessa, eppure sempre nuova.
La stessa di ieri, ma diversa da ieri.
La stessa di duemila anni fa, di venti secoli fa, ma diversa, oggi, e domani,
come sarà la stessa domani e oggi.
No, amico mio. Non credere di conoscere tutto della Passione del Signore.
O meglio, non pensare che ci sia qualcosa che non possa più dirti più nulla.
I versetti del Vangelo hanno un dono particolare.
Sanno rincorrerti dappertutto – nella vita del grande santo o di un incallito peccatore –
sanno raggiungerti di nascosto, di sorpresa.
Sono lì, i versetti, le parole, a volte anche la punteggiatura.
Ma quando si tratta del culmine del Vangelo – la Passione –
questi versetti corrono ancor più veloci,
pur se si leggono lentamente, perché tu sai dove ti stanno portando.
Tu sai dove vanno, il monte che stanno salendo, e l’ora (la notte, l’alba, mezzogiorno, le tre).
Così è per i versetti della Passione secondo Marco.
I versetti di quei due dei sedici capitoli del secondo Vangelo – che è il primo –,
il capitolo 14 e poi il capitolo 15.
Sono versetti pieni di personaggi che stanno fermi e si affrettano, consegnano e fuggono.
Eppure c’è uno di questi personaggi che mi tocca, uno più degli altri,
uno rinchiuso – o meglio, “avvolto” in due versetti – che da sempre mi ha colpito.
Non è la donna di Betania che versa l’unguento sul capo del Signore. Anche se è ammirevole e se verrà sempre ricordata. Non è un discepolo. Non Giuda, così tristemente protagonista, non Pietro, non Giacomo, non Giovanni. Non sono quei due che vanno a preparare la Pasqua. Né quell’ignoto personaggio con la brocca d’acqua, che ha predisposto la stanza alta per la cena. Non sono i sommi sacerdoti, né gli anziani o gli scribi; non sono i soldati che arrestano Gesù, né quel servo a cui viene tagliato l’orecchio; neanche è la serva che riconosce Pietro, né gli altri presenti con lei. Non è Pilato. Non è Barabba. Non Simone di Cirene, costretto a portare la croce. Non i passanti, né le donne, sia Maria di Magdala, sia Maria di Giacomo, sia Salome. Neanche si tratta di Giuseppe d’Arimatea, così pietoso verso il corpo di Gesù. Non è neppure quel centurione, così importante in questo racconto, che professa la sua fede in Dio sotto la croce. No, amico mio. Tutti questi personaggi sono più o meno importanti, li conosciamo anche dagli altri Vangeli. Fanno tutti parte della nostra memoria, della nostra infanzia e giovinezza.
Ma ce n’è uno che ci sfugge
e che fugge velocemente, così com’è entrato.
Uno che non è né infante né giovane.
Uno di cui non si sa né il nome, né la provenienza
E che si prende i versetti 51 e 52 del capitolo 14.
Uno che ha lo spazio di due versetti – solo in Marco –
e che si presenta in diciannove parole greche,
di cui le prime, tradotte alla lettera sono:
e giovanetto uno seguiva lui.
Non è né un infante, né un giovane,
ma un giovinetto,
“neaniscos tis”,
forse di tredici o di quindici anni,
“adulescens quidam”,
uno che sta crescendo, che si sta formando, che vive quella misteriosa ed unica trasformazione
che non è solo del corpo, ma anche del cuore e della mente.
Un giovinetto nel Getsemani, in quella normale tragica sera di giovedì.
Una sera normale, limpida, con la luna ormai piena.
Una sera tragica, di tradimento, con la Pasqua ormai quasi compiuta.
Prima silenzio, sonno e preghiera.
Dopo, trambusto, sveglia e arresto.
Prima vicini a Lui, dopo a Lui lontani.
Prima pronti a proteggerlo, poi pronti a fuggire. Discepoli paurosi.
E noi, invece, lettori superficiali che sanno come va a finire, “pronti” a sostenere Gesù,
compatiamo i discepoli paurosi.
Noi lettori “coraggiosi e validi testimoni”.
Ci facciamo avanti, “sbuchiamo” all’improvviso,
sicuri che nessuno potrà mai arrestare un lettore, fermarlo.
No, amico mio. Non è così. Nessuno ci arresta, è vero. Nessuno ci blocca.
Ma “adulescens quidem”, un giovinetto, ci rappresenta.
Per questo, forse proprio per questo, quel giovinetto irrompe nel testo:
per dare un volto al lettore nella scena.
Un volto di giovinetto, come siamo noi, né troppo poveri di vangelo né troppo esperti.
Lettori in crescita, avvolti da un lenzuolo bianco sul corpo nudo – probabilmente si trattava di una sottoveste (era forse un abitante del vicinato che si era vestito in fretta per accorrere sul posto) -; eppure quell’indumento è chiamato “sindone” (come un’altra sindone, certo per un altro uso); un lenzuolo – o una sottoveste – che ci fa pensare alla veste del giovane Giuseppe che egli lasciò nelle mani della seduttrice egiziana, pur di non cadere nelle sue trame.
Un lenzuolo – o una sottoveste – che ci fa stare sicuri, per il suo colore e calore. Un lenzuolo di lino, usato da persone ricche o che si credono tali, pur essendo ragazzini. Un lenzuolo che ci fa ricchi, anche se nasconde un corpo nudo. Una sicurezza che ci dà coraggio, come si crede coraggioso un adolescente, spinto dalla curiosità e dall’avventura. Spinto, come il lettore, dalla certezza che poi tutto finirà bene.
Amico mio, quel ragazzino coperto dal lenzuolo ora lo stanno prendendo.
Stanno prendendo anche te con lui. Che fa il ragazzo? Che fai tu, lettore? Che facciamo?
Coraggio, affrontiamo i soldati!?
No, fugge.
Fuggi.
Fuggiamo.
Sì, come i discepoli. Anche noi, altroché validi e coraggiosi, fuggiamo lasciando ciò che ci copre, rimaniamo nudi, lasciando in quel testo e in quel versetto il lenzuolo e le nostre false ricchezze
e portandoci appresso la nostra nudità di creature.
Come fuggirono Adamo e Eva, quando si accorsero di essere nudi. Anche loro, da un giardino.
No, amico mio, non leggere la Passione secondo Marco in fretta,
perché in ogni caso poi dovrai inciampare in questi due versetti.
Mettiti pure vicino a Gesù, come il giovinetto che lo seguiva.
Poi anche tu – e con te io, tutti – dovrai fuggire nudo.
E nudo sarai mentre la narrazione procede.
Lettore spogliato di tutto, davanti a Colui che viene spogliato delle vesti.
Davanti alla croce, per poi osservare, da lontano, dove Egli viene riposto.
Osservando anche come viene sepolto: con un lenzuolo bianco,
che ha lo stesso nome della sottoveste perduta nel giardino e nel versetto.
Un lenzuolo che a Lui si addice, non più a noi. Che esprime nella sua povertà la vera Ricchezza.
E che, avvolgendolo, lo accompagna nel sepolcro nuovo, nel buio della pietra rotolata.
Dove tutto è finito.
No, non è tutto finito.
Perché un altro ragazzino ci attende, per riconquistarci.
Un altro ragazzo, né infante né giovane, inviato presto, nel giorno dopo il sabato,
per attendere nel sepolcro le donne (e noi con loro).
Un giovinetto che si prende per sé tre versetti,
un neaniscum (sì, lo stesso termine, anche se il latino traduce “iuvenem”),
non più avvolto da un lenzuolo, ma da una stola bianca.
Le donne hanno paura. Ma, entrate nel sepolcro e trovatolo vuoto del corpo,
si ritrovano un ragazzo che dice loro: “No, non abbiate paura. Gesù è risorto, non è qui.
Lo vedrete in Galilea”. Annuncio di gioia, di pace, di vita.
Annuncio che ammutolisce le donne.
Anche loro, per il grande stupore, fuggono, come era fuggito il giovinetto nel Getsemani.
Fuggono in silenzio e chiudono il Vangelo.
L’annuncio era talmente grande da non essere inizialmente creduto.
In un vangelo in cui più volte Gesù raccomanda di mantenere il segreto di un miracolo,
senza essere ascoltato, ora, proprio quando l’angelo raccomanda di annunciare la resurrezione, le donne tacciono.
Eppure quel silenzio permette a noi lettori di rientrare nella scena,
ormai libera da ogni personaggio,
se non un angelo giovinetto.
Entriamo di nuovo noi, mettendoci nei panni del ragazzetto fuggito nel Getsemani.
Ed ecco che, come in uno specchio, il ragazzo rimasto nudo
– ossia ognuno di noi, toccato dalla Passione –
si ritrova davanti ad un altro ragazzo vestito della stola.
Tra loro un lenzuolo vuoto.
Ma il cuore pieno.
È il momento di prendere quel lenzuolo, segnato dalla croce, e di rivestirsi, amico mio.
Tu con me, insieme lettori di questo testo, ci ritroviamo protagonisti dell’evento.
Fuggiti nell’ora del Getsemani, ora entriamo definitivamente nel vangelo per non uscirne più.
Prendiamo sindone e stola, amico mio,
rivestiamoci di Cristo morto e risorto
e annunciamo la sua sorprendente salvezza!
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