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Archive for the ‘don Paolo Ricciardi’ Category

Ancora una volta, nelle chiese d’Italia e del mondo, in queste domeniche di aprile, di maggio e di giugno, profumate di primavera, c’è un esercito vestito di bianco che attira l’attenzione di molti, anche se non ne troveremo traccia nelle notizie dei quotidiani o navigando sui siti più “cliccati” della rete.

“Viaggeranno” sì, centinaia di foto, nei gruppi whatsapp di genitori, catechisti, forse anche dei sacerdoti o di qualche suora, con frasi di auguri, commozioni delle mamme e di spaesati papà non più abituati, da tempo, a ritrovarsi eleganti in una celebrazione in chiesa che coinvolga la famiglia.

Le prime comunioni dei nostri figli: movimento di intere comunità, gigli o calle tra le mani di questi bambini, che “giocano” con la croce di legno sul petto o con il cordoncino intorno alla vita. Catechiste più o meno agitate, anche loro emozionate, dopo che forse per mesi si sono lamentate con il parroco perché i loro bambini erano troppo vivaci e i loro genitori praticamente indifferenti. Volontari dispiegati in servizi d’ordine “stile concerto”, parenti che vogliono per forza stare davanti per fotografare tutto e tutti; segni che addobbano la chiesa, cartelloni, canti di festa, prove, mani giunte, inchini, in ginocchio, seduti. Chiacchiericcio in fondo e fuori della chiesa, con il parroco che invita al silenzio, una, due, tre volte… e poi si rassegna. Regali presi all’ultimo momento, “forse ti arriva il primo telefonino” (altro che il “compasso” o addirittura il “microscopio” dei nostri tempi), buste con centinaia di euro in mano ai ragazzini. E poi il ristorante, i nonni, gli zii, i cugini, le bomboniere, i confetti, i palloncini, magari per qualcuno pure i fuochi d’artificio.

In tutto questo, nella mitezza e nell’umiltà che Gli sono proprie, Lui si dona. È Pane di vita, in mezzo alla nostra confusione, nelle nostre fragilità (e a volte nella banalità delle nostre forme esteriori). Lui si dona, entrando nelle bocche di questi bambini come entrò a Gerusalemme, nella semplicità di un Re che cavalca un asinello. Forte nella sua tenerezza. Buono come il Pane.

Così, quasi chiedendoci il permesso, si dona ai nostri bambini, ai nostri figli. E a noi. Noncurante del resto, Egli va all’essenziale, nella semplicità e nel sapore del Pane. Desiderando un Incontro. Per nutrirci di Lui. È Corpo e Sangue donato per noi, che nutre le nostre vite, affamate d’Amore.

Noi crediamo in un Dio che si fa piccolo, perché l’Amore è attento ai piccoli particolari. Un Dio vicino, realmente presente nell’Eucaristia, che addirittura permette, nella libertà che ci dona, di non crederGli.

Ho avuto la Grazia più di una volta di incontrare bambini realmente (e non solo emozionalmente) attratti dal Signore, quasi capaci di incrociare il Suo sguardo.

Spesso noi adulti (a volte anche noi preti) non siamo capaci di aiutare i piccoli a vivere questo incrocio di Sguardi e questa unione. Ci mettiamo in mezzo e li ostacoliamo, questi bambini, impedendogli di vedere veramente Dio, oppure concedendo loro questo Incontro solo per qualche volta.

Mi auguro che possiamo, in queste domeniche di primavera, metterci accanto ai nostri figli, per percepire l’essenzialità del Momento, ed impegnarci, con loro e per loro, affinché questa Amicizia con Cristo sia il vero nutrimento della loro vita.

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Infinitamente Grato a Dio per il Sacramento dell’Ordine Sacro ricevuto in dono il 2 maggio 1993 e per quanto ha operato in me

                                                                                            don  Paolo

 

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25 sacerdozio

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Rallegratevi ed esultate

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Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Il suo amore è per sempre. Eterna è la sua misericordia. In questa Domenica della Divina Misericordia ci lasciamo prima di tutto toccare da questa certezza: Dio mi ama, il nome di Dio è Misericordia. Lui conosce la mia vita, le mie fragilità, il mio peccato. E mi dona il suo infinito amore, mi fa rinascere con il perdono.
Il Vangelo di Giovanni ci presenta oggi due momenti diversi a distanza di u
na settimana l’uno dall’altro. Il primo momento è la sera del giorno della resurrezione. Immaginiamo i discepoli già “travolti” da una gioia incredibile: la Maddalena e le donne hanno detto di aver visto il Signore, anche Pietro ha avuto probabilmente un’apparizione del risorto, i due discepoli di Emmaus sono appena rientrati raccontando tutto ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. In questo trambusto di parole, sguardi, emozioni, attese… il Signore risorto entra, a porte chiuse, facendosi vedere da tutti. Oggi, in questa nostra celebrazione domenicale, qui, Gesù entra di nuovo per condividere la Sua presenza in mezzo a noi. E il primo dono che ci dà è la Pace. Mostrandoci i segni delle ferite, ci mostra un amore più forte dell’odio e della morte. La sua presenza dà Pace e Gioia, perché è Amore.
Poi, di nuovo, dando la Pace, fa un gesto particolare. Soffia. Un soffio leggero e forte allo stesso tempo, richiamo del soffio originale del Creatore che alita la vita nelle narici dell’uomo plasmato con la polvere del suolo, rendendolo un essere vivente.
Siamo stati creati per un soffio… Ora siamo ricreati per un soffio… Eravamo sull’orlo del precipizio della morte e, per un soffio, Cristo ci ridà vita.
Non so quanti di voi sanno che c’è un giorno l’anno in cui il vescovo titolare di una diocesi – per noi il papa – soffia. Si tratta del momento liturgico in cui, durante la messa crismale in cattedrale il giovedì santo mattina, il vescovo, dopo aver benedetto l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi, consacra il crisma, l’olio misto a profumo che serve per consacrare i battezzati, per ungere le mani dei sacerdoti o la testa dei vescovi nel giorno dell’ordinazione, per ungere l’altare e le pareti della chiesa nel giorno della dedicazione della chiesa stessa. E, come succederà tra poco, per ungere la fronte dei nuovi cresimati. Il vescovo soffia sull’ampolla, dopo di che pronuncia una bellissima e lunga preghiera in cui tra le altre cose dice: Questa unzione li penetri e li santifichi (i battezzati), perché liberi dalla nativa corruzione, e consacrati tempio della tua gloria, spandano il profumo di una vita santa.
Quale grande amore ci ha riservati Dio, per essere anche noi cristiani, che significa “unti”, come Lui! Quale grazia quella di poter manifestare, come ci ha mostrato la lettura degli Atti, una comunità che sia un cuor solo e un’anima sola, unita nella preghiera e nel servizio!
Ma, a questo punto, ci chiediamo perché, in quel clima di gioia e di pace che è stato il cenacolo, quella sera ne mancasse uno. Perché Tommaso è stato privato di questa grazia? Proviamo a metterci nei suoi panni… Gli altri, appena rientrato, lo avranno travolto con le loro parole: “Abbiamo visto Gesù!” e continuamente, per un’intera settimana, avranno cercato di convincerlo di quella visione collettiva. E lui rimane incredulo… ma il suo dramma non è tanto non credere alla testimonianza di altri dieci, ma il crogiolarsi nel chiedersi perché, “se veramente Gesù è apparso, non mi ha aspettato, non ha voluto che ci fossi anch’io…” La risposta è chiara… “Perché sono più peccatore, perché non sono degno, perché non mi ama”.
Non è stato forse anche il pensiero di molti di noi, in momenti della vita in cui sembra che a tutti gli altri vada bene, mentre noi ci sentiamo esclusi dall’amore, dalla pace, dalla gioia, da quel “soffio”? A volte quell’attesa di Dio, che si è fatta pianto, scoraggiamento, incredulità, desiderio, ci ha consumato, come è successo a Tommaso. Non è un caso che sia chiamato “Didimo” che significa gemello, perché è così simile a ciascuno di noi…
Se sei così, se forse anche voi cresimandi avete passato periodi più o meno lunghi di questa lontananza di Dio e da Dio, oggi, in questa celebrazione domenicale, c’è posto per te. La non fede di Tommaso è servita per accrescere la nostra fede, il nostro desiderio, la nostra attesa. Gesù non ha fatto uno scherzo a Tommaso, non voleva infierire su di lui. Lo ha fatto attendere non perché non lo amasse o lo amasse meno di altri, ma per renderlo strumento per noi, che non vediamo il Signore con gli occhi, ma possiamo ugualmente credergli.
Il “se non vedo, non credo” di Tommaso e nostro, da oggi in poi si trasforma in “se non credo, non vedo”. La fede, per il cristiano, non è cieca. La fede ci fa realmente vedere al di là dei sensi stessi, perché ci fidiamo di tanti che ci hanno trasmesso la presenza del Risorto e perché ci affidiamo a Dio. Gesù mostra le ferite della nostra umanità, che diventano feritoie attraverso le quali passa la sua Luce.
Voi cresimandi siete chiamati a testimoniare ancor più, d’ora in poi, ciò che non avete visto; paradosso cristiano, che porta avanti la chiesa da duemila anni, vittoria che – come dice Giovanni – vince il mondo: la nostra fede. Voi verrete rafforzati dall’imposizione delle mani e l’unzione che vi farà pronti a testimoniare questa Misericordia.
Non servirà toccare il costato di Cristo – con quello sguardo stupito e curioso di Tommaso, rappresentato nella famosa tela del Caravaggio –. Sarà dal costato di Cristo che saremo noi toccati dall’acqua e dal sangue, segno della Grazia sacramentale che ci fa partecipi, noi che siamo uomini, delle cose che appartengono a Dio.
Pensiamo all’immagine di Gesù misericordioso secondo la descrizione di Santa Faustina. È un Signore che ci accoglie con uno sguardo d’amore e che apre il costato, perché quei raggi, segni dell’acqua e del sangue possano raggiungere noi. Sì, Dio mi raggiunge, mi tocca, mi ama. Se anche io non credessi in Lui, è Lui a credere in me.
Cari cresimandi, lasciatevi toccare anche per un soffio. E tutti noi presenti, padrini, familiari, amici, comunità, ricordiamoci che se apriamo la porta a Cristo risorto la nostra vita cambia, la vita di ogni giorno, dalla sveglia del mattino, agli incontri, le relazioni, il lavoro, la famiglia, gli imprevisti, tutto. Tutto può essere toccato dalla Grazia, se ci lasciamo guidare dallo Spirito. È un soffio leggero, che però può sospingere d’ora in poi tutta la vostra vita.
Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

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La Passione e la Resurrezione secondo Marco (14,1-16,8)

 

Ecco un invito alla Gioia, quella che sgorga dal Vangelo.

Un invito a rallegrarti, anche se la materia è fin troppo seria e importante.

È l’invito a metterti a leggere la Passione secondo Marco, amico,

chiedendo, domandando una Luce.

Non leggerla se pensi solamente di leggerla così,

come una pia lettura da catechismo d’altri tempi.

Non leggerla così, altrimenti, amico mio,

arriverai ad un punto in cui non comprenderai che cosa Marco voglia dire. A te.

Si, a te in questo momento della vita, in questo tuo cuore pieno di esperienze e di emozioni.

A te.

Sì, a te che conosci già questa storia che è sempre la stessa, eppure sempre nuova.

La stessa di ieri, ma diversa da ieri.

La stessa di duemila anni fa, di venti secoli fa, ma diversa, oggi, e domani,

come sarà la stessa domani e oggi.

No, amico mio. Non credere di conoscere tutto della Passione del Signore.

O meglio, non pensare che ci sia qualcosa che non possa più dirti più nulla.

 

I versetti del Vangelo hanno un dono particolare.

Sanno rincorrerti dappertutto – nella vita del grande santo o di un incallito peccatore –

sanno raggiungerti di nascosto, di sorpresa.

Sono lì, i versetti, le parole, a volte anche la punteggiatura.

Ma quando si tratta del culmine del Vangelo – la Passione –

questi versetti corrono ancor più veloci,

pur se si leggono lentamente, perché tu sai dove ti stanno portando.

Tu sai dove vanno, il monte che stanno salendo, e l’ora (la notte, l’alba, mezzogiorno, le tre).

Così è per i versetti della Passione secondo Marco.

I versetti di quei due dei sedici capitoli del secondo Vangelo – che è il primo –,

il capitolo 14 e poi il capitolo 15.

Sono versetti pieni di personaggi che stanno fermi e si affrettano, consegnano e fuggono.

 

Eppure c’è uno di questi personaggi che mi tocca, uno più degli altri,

uno rinchiuso – o meglio, “avvolto” in due versetti – che da sempre mi ha colpito.

 

Non è la donna di Betania che versa l’unguento sul capo del Signore. Anche se è ammirevole e se verrà sempre ricordata. Non è un discepolo. Non Giuda, così tristemente protagonista, non Pietro, non Giacomo, non Giovanni. Non sono quei due che vanno a preparare la Pasqua. Né quell’ignoto personaggio con la brocca d’acqua, che ha predisposto la stanza alta per la cena. Non sono i sommi sacerdoti, né gli anziani o gli scribi; non sono i soldati che arrestano Gesù, né quel servo a cui viene tagliato l’orecchio; neanche è la serva che riconosce Pietro, né gli altri presenti con lei.  Non è Pilato. Non è Barabba. Non Simone di Cirene, costretto a portare la croce. Non i passanti, né le donne, sia Maria di Magdala, sia Maria di Giacomo, sia Salome. Neanche si tratta di Giuseppe d’Arimatea, così pietoso verso il corpo di Gesù. Non è neppure quel centurione, così importante in questo racconto, che professa la sua fede in Dio sotto la croce. No, amico mio. Tutti questi personaggi sono più o meno importanti, li conosciamo anche dagli altri Vangeli. Fanno tutti parte della nostra memoria, della nostra infanzia e giovinezza.

 

Ma ce n’è uno che ci sfugge

e che fugge velocemente, così com’è entrato.

Uno che non è né infante né giovane.

Uno di cui non si sa né il nome, né la provenienza

E che si prende i versetti 51 e 52 del capitolo 14.

Uno che ha lo spazio di due versetti – solo in Marco –

e che si presenta in diciannove parole greche,

di cui le prime, tradotte alla lettera sono:

e giovanetto uno seguiva lui.

Non è né un infante, né un giovane,

ma un giovinetto,

neaniscos tis”,

forse di tredici o di quindici anni,

adulescens quidam”,

uno che sta crescendo, che si sta formando, che vive quella misteriosa ed unica trasformazione

che non è solo del corpo, ma anche del cuore e della mente.

Un giovinetto nel Getsemani, in quella normale tragica sera di giovedì.

Una sera normale, limpida, con la luna ormai piena.

Una sera tragica, di tradimento, con la Pasqua ormai quasi compiuta.

Prima silenzio, sonno e preghiera.

Dopo, trambusto, sveglia e arresto.

Prima vicini a Lui, dopo a Lui lontani.

Prima pronti a proteggerlo, poi pronti a fuggire. Discepoli paurosi.

 

E noi, invece, lettori superficiali che sanno come va a finire, “pronti” a sostenere Gesù,

compatiamo i discepoli paurosi.

Noi lettori “coraggiosi e validi testimoni”.

Ci facciamo avanti, “sbuchiamo” all’improvviso,

sicuri che nessuno potrà mai arrestare un lettore, fermarlo.

 

No, amico mio. Non è così. Nessuno ci arresta, è vero. Nessuno ci blocca.

Ma “adulescens quidem”, un giovinetto, ci rappresenta.

Per questo, forse proprio per questo, quel giovinetto irrompe nel testo:

per dare un volto al lettore nella scena.

Un volto di giovinetto, come siamo noi, né troppo poveri di vangelo né troppo esperti.

Lettori in crescita, avvolti da un lenzuolo bianco sul corpo nudo – probabilmente si trattava di una sottoveste (era forse un abitante del vicinato che si era vestito in fretta per accorrere sul posto) -; eppure quell’indumento è chiamato “sindone” (come un’altra sindone, certo per un altro uso); un lenzuolo – o una sottoveste – che ci fa pensare alla veste del giovane Giuseppe che egli lasciò nelle mani della seduttrice egiziana, pur di non cadere nelle sue trame.

Un lenzuolo – o una sottoveste – che ci fa stare sicuri, per il suo colore e calore. Un lenzuolo di lino, usato da persone ricche o che si credono tali, pur essendo ragazzini. Un lenzuolo che ci fa ricchi, anche se nasconde un corpo nudo. Una sicurezza che ci dà coraggio, come si crede coraggioso un adolescente, spinto dalla curiosità e dall’avventura. Spinto, come il lettore, dalla certezza che poi tutto finirà bene.

 

Amico mio, quel ragazzino coperto dal lenzuolo ora lo stanno prendendo.

Stanno prendendo anche te con lui. Che fa il ragazzo? Che fai tu, lettore? Che facciamo?

Coraggio, affrontiamo i soldati!?

No, fugge.

Fuggi.

Fuggiamo.

 

Sì, come i discepoli. Anche noi, altroché validi e coraggiosi, fuggiamo lasciando ciò che ci copre, rimaniamo nudi, lasciando in quel testo e in quel versetto il lenzuolo e le nostre false ricchezze

e portandoci appresso la nostra nudità di creature.

Come fuggirono Adamo e Eva, quando si accorsero di essere nudi. Anche loro, da un giardino.

 

No, amico mio, non leggere la Passione secondo Marco in fretta,

perché in ogni caso poi dovrai inciampare in questi due versetti.

Mettiti pure vicino a Gesù, come il giovinetto che lo seguiva.

Poi anche tu – e con te io, tutti – dovrai fuggire nudo.

 

E nudo sarai mentre la narrazione procede.

Lettore spogliato di tutto, davanti a Colui che viene spogliato delle vesti.

Davanti alla croce, per poi osservare, da lontano, dove Egli viene riposto.

Osservando anche come viene sepolto: con un lenzuolo bianco,

che ha lo stesso nome della sottoveste perduta nel giardino e nel versetto.

Un lenzuolo che a Lui si addice, non più a noi. Che esprime nella sua povertà la vera Ricchezza.

E che, avvolgendolo, lo accompagna nel sepolcro nuovo, nel buio della pietra rotolata.

Dove tutto è finito.

 

No, non è tutto finito.

Perché un altro ragazzino ci attende, per riconquistarci.

Un altro ragazzo, né infante né giovane, inviato presto, nel giorno dopo il sabato,

per attendere nel sepolcro le donne (e noi con loro).

Un giovinetto che si prende per sé tre versetti,

un neaniscum (sì, lo stesso termine, anche se il latino traduce “iuvenem”),

non più avvolto da un lenzuolo, ma da una stola bianca.

 

Le donne hanno paura. Ma, entrate nel sepolcro e trovatolo vuoto del corpo,

si ritrovano un ragazzo che dice loro: “No, non abbiate paura. Gesù è risorto, non è qui.

Lo vedrete in Galilea”. Annuncio di gioia, di pace, di vita.

Annuncio che ammutolisce le donne.

Anche loro, per il grande stupore, fuggono, come era fuggito il giovinetto nel Getsemani.

Fuggono in silenzio e chiudono il Vangelo.

L’annuncio era talmente grande da non essere inizialmente creduto.

In un vangelo in cui più volte Gesù raccomanda di mantenere il segreto di un miracolo,

senza essere ascoltato, ora, proprio quando l’angelo raccomanda di annunciare la resurrezione, le donne tacciono.

 

Eppure quel silenzio permette a noi lettori di rientrare nella scena,

ormai libera da ogni personaggio,

se non un angelo giovinetto.

Entriamo di nuovo noi, mettendoci nei panni del ragazzetto fuggito nel Getsemani.

Ed ecco che, come in uno specchio, il ragazzo rimasto nudo

– ossia ognuno di noi, toccato dalla Passione –

si ritrova davanti ad un altro ragazzo vestito della stola.

Tra loro un lenzuolo vuoto.

Ma il cuore pieno.

È il momento di prendere quel lenzuolo, segnato dalla croce, e di rivestirsi, amico mio.

Tu con me, insieme lettori di questo testo, ci ritroviamo protagonisti dell’evento.

Fuggiti nell’ora del Getsemani, ora entriamo definitivamente nel vangelo per non uscirne più.

 

Prendiamo sindone e stola, amico mio,

rivestiamoci di Cristo morto e risorto

e annunciamo la sua sorprendente salvezza!

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Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito. Chi crede in lui ha la vita eterna.

Il messaggio del Vangelo di oggi è orientato ad un clima di gioia. Oggi è infatti la “domenica laetare”, un invito, nel mezzo del tempo quaresimale, a rallegrarsi sempre nel Signore che ci dà la vita e la pace.

Se domenica scorsa veniva presentato il mistero di Cristo, tempio di Dio, oggi il centro della Liturgia della Parola è Cristo “innalzato”.

Il contesto è un dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, un capo dei giudei, un membro del sinedrio, quindi un rappresentante della legge e della tradizione ebraica. Per timore dei Giudei va da Gesù di notte, in un atteggiamento di ricerca: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2).

In questo incontro notturno ci siamo noi, uomini del terzo millennio, nella fatica a volte di comprendere i segni con cui Dio interviene. L’uomo si sente spesso come in esilio. La nostra anima ha sete di Dio, anche quando non vogliamo ammetterlo.

Il passo dal libro delle Cronache ci racconta sinteticamente uno degli eventi più terribili della storia di Israele: l’esilio in Babilonia. Il popolo non seguiva più la legge del Signore, e la deportazione è stata vissuta con una profonda crisi di fede. Gli uomini credevano che Dio si fosse allontanato da loro, ma in realtà era avvenuto il contrario. L’esilio babilonese è immagine dell’uomo di ogni tempo che sperimenta l’angoscia e la crisi e che in questo “vivere” si sente “morire”.

I sentimenti del popolo di Israele in esilio sono espressi nel bellissimo salmo 136 – la preghiera a cui Giuseppe Verdi si ispirò per “Va’ pensiero” – in cui c’è un richiamo forte al desiderio di gioia: Il tuo ricordo, Signore, ci colma di gioia. L’immagine che rappresenta questa situazione dell’uomo è la cetra appesa ai salici – che noi definiamo alberi “piangenti” – quello strumento di gioia non viene più usato, non ce n’è più motivo. Ma è lo stesso mondo che ci imprigiona, che poi ci chiede di cantare i canti di gioia. Attualizzando la situazione di Israele potremmo dire che oggi è la Chiesa ad essere seduta lungo i fiumi di Babilonia, che sono questo mondo ingannevole che passa. Pure in mezzo a contraddizioni e pericoli, essa non deve smettere mai di “cantare i canti di Sion”, ossia di indirizzare il cuore a Cristo, fonte della vera gioia e della vera libertà. Dobbiamo alzare lo sguardo!

E ciò che dice Gesù con Nicodemo: alza lo sguardo, non fermarti alle cose della terra: se cerchi la verità devi guardare in alto e lì vedere Gesù innalzato, come Mosè innalzò il serpente nel deserto. L’immagine richiama un episodio raccontato dal libro dei Numeri (Nm 21,4-9). Poiché il popolo d’Israele continuava a lamentarsi del suo peregrinare nel deserto, il Signore mandò serpenti velenosi che mordevano la gente, facendola morire. Il lamento e il veleno sono chiaramente connessi. Non serve un castigo di Dio, ma è l’uomo che lamentandosi avvelena e si avvelena perché non è capace di lodare, di ringraziare. A rimedio a questo, il Signore dice a Mosè di fabbricarsi un serpente di rame e di innalzarlo su un’asta. Chiunque, dopo essere stato morso, guarderà il serpente di rame, sarà salvato. Così commenta il libro della Sapienza: “Quel serpente fu un simbolo di salvezza: infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti” (Sap 16,6-7). Ciò che viene richiamato quindi non è tanto l’immagine del “serpente” – animale ambiguo, simbolo della morte e del male e simbolo della fecondità e della vita – ma il senso salvifico dell’innalzamento. È un chiaro riferimento al mistero della croce. Gesù sarà innalzato, sospeso tra cielo e terra, e chi lo guarderà con fede troverà la vita eterna, sarà salvato dai morsi del male.

Il nostro sguardo allora oggi, in questa IV domenica, a tre settimane dalla Pasqua, si rivolge già al mistero della croce, contemplando la salvezza. Il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per salvare il mondo. Se l’uomo risponde con la fede, ha la vita eterna.

Chi guarda Gesù crocifisso passa dalle tenebre alla luce. Se l’uomo non accoglie la Luce del mondo, rimane nel buio del suo cuore. La presenza di Cristo è Verità. Ma, conclude il Vangelo, la verità non è solo da conoscere. Bisogna “compiere la verità” per venire alla Luce.

E Dio, ricco di misericordia, da morti che siamo ci farà rivivere in Cristo.

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Questa domenica, la seconda di Quaresima, ci invita a salire sui monti. Dopo essere passati per il deserto delle tentazioni, siamo di nuovo messi alla prova, invitati ad uscire, a salire, confondendoci tra i servi di Abramo, o come settimi protagonisti del Tabor, davanti a Gesù tra Mosè ed Elia e dietro i tre discepoli privilegiati per questo momento di luce.

Sul monte, dove il Signore provvede, c’è un padre, Abramo, messo alla prova da Dio. E un figlio, Isacco, legato e poi liberato. C’è un padre che, come richiesto, offre suo figlio, l’amato, il desiderato da cento anni. Il cammino di Abramo è il cammino dell’uomo che riceve i doni di Dio ed è tentato ad un certo punto di assolutizzare i doni – fosse anche il più bello – e metterlo al posto di Dio. Ha bisogno quindi di fare un atto di fede, di passare da Isacco a Dio, di ritornare all’Assoluto. E lì, sul monte, si accorge che Dio è sempre fedele. Un Dio che non gli restituisce di fatto il figlio – perché anche se non muore, Abramo ha rinunciato a mettere Isacco al posto di Dio – ma che lo invita a guardare oltre, a guardare ad una discendenza numerosa, a desiderare, pur inconsapevolmente, Cristo.

Anche sul Tabor c’è un Padre e un Figlio. Un Padre che consegna suo Figlio a tutti noi, che paradossalmente rinuncia al possesso del Figlio per donarlo all’umanità. Un Padre che fa trasfigurare il Figlio, facendo vedere tutta la sua gloria a quei tre testimoni privilegiati abituati alle rive del lago, piuttosto che alle cime dei monti.

E i tre si ritrovano di fronte ad altri tre, Mosè, Elia e Gesù, abituati ai monti della Parola – il Sinai –, della preghiera – il Carmelo – e al Monte dove il povero in spirito diventa beato.

Sappiamo bene che il mistero della Trasfigurazione è per i discepoli una preparazione al mistero della “Sfigurazione”. Gesù che sale il Tabor salirà un giorno, non molto lontano, il Calvario. Accanto a Lui non saranno più Mosè ed Elia, ma due ladroni. Non ci sarà più la Luce, ma il buio. Non più la Voce del Padre, ma il Suo silenzio.

Questa tappa del cammino quaresimale ogni anno ci prepara ad affrontare l’esodo pasquale.

Pietro, a nome degli altri, vuole fissare quell’attimo, renderlo eterno. Ma Pietro non deve rimanere lì, anche se è bello. Deve scendere. E noi con lui. Così si esprime Sant’Agostino in un splendido commento a questo vangelo: “Scendi, Pietro; desideravi riposare sul monte: scendi… ad affaticarti sulla terra, a servire sulla terra, ad essere disprezzato, ad essere crocifisso sulla terra”. È discesa la vita per essere uccisa, è disceso il pane per sentire la fame, è discesa la via, perché sentisse la stanchezza nel cammino, è discesa la sorgente per aver sete, e tu rifiuti di soffrire?”. (Sant’Agostino, Discorso 78)

E Paolo VI, che il Signore ha chiamato a sé il giorno della Trasfigurazione di 40 anni fa, diceva: “Gesù è un tabernacolo in moto: è l’Uomo che porta dentro di Sé l’ampiezza del Cielo; è il Figlio di Dio fatto Uomo; è il miracolo che passa sui sentieri della nostra terra”.

Il Dio che ha aperto il mare e che vi ha fatto passare Israele è il Dio che apre il mio cammino, nella gioia, verso l’uomo; egli mi fa vedere la Luce dell’Eucaristia. Avvolto dalla nube dello Spirito e toccato dalla voce del Padre, sono invitato ad ascoltare Gesù, per essere capace, se ora non vedo Dio, di intra-vederlo.

E ci capiterà di intravederlo negli occhi di un malato grave, ma forte nella fede. Di intra-vederlo in tante persone impegnate per il bene degli altri, senza voler ottenere nulla in cambio. Di intra-vederlo nelle comunità dove si respira la bellezza di credere in Lui. Lo intra-vedrete ogni volta che, pur nelle nostre mani di peccatori, Lui sceglie di essere preso da noi nel Pane dell’Eucarestia. Lo intra-vedrete quando un atto di carità verso un povero lo illuminerà di pace. Lo intra-vediamo ora, certi che un giorno vedremo Dio in tutta la Sua Luce, in tutta la Sua Gloria, in tutto il Suo Amore. E allora potremo finalmente dire: “è bello per noi essere qui”. E Gesù solo, con noi, ci dirà: “saremo qui per sempre”.

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Da ogni parte venivano da Gesù. La notizia della guarigione di un lebbroso non può rimanere nascosta. Gesù sembra illudersi di una umanità capace di mantenere un segreto; eppure la sua richiesta di non dire niente a nessuno è dettata da una conoscenza profonda dell’uomo che non sa andare oltre il fisico, il visibile, il tangibile.

“Se si è malati, tanto più se lebbrosi, bisogna guarire”, così pensiamo noi uomini… è umano. La debolezza del corpo, la malattia, l’incapacità di muoverci o di relazionarci come vorremmo è qualcosa che ci impedisce di essere veramente uomini, così crediamo.

E quindi, se si trova un “guaritore”, un uomo dei miracoli, tutti corriamo da lui, da ogni parte. E ci domandiamo: “Perché, Signore, non guarisci tutti i malati del mondo? Almeno gli innocenti, i bambini…”

Le poche guarigioni che Gesù ha compiuto dovevano essere “segno” di un dono per tutti che avrebbe fatto solo salendo sulla croce, morendo per noi; entrando dentro il nostro dolore, le nostre passioni, le nostre croci e mostrandoci così che c’è redenzione per tutti. Gesù non è un guaritore, ma il Salvatore.

Oggi, giornata del malato, nel vangelo di oggi ci basti fermarci ai primi due versetti: un uomo che supplica in ginocchio per chiedere la purificazione (i lebbrosi erano considerati impuri) e Gesù che ha compassione e che non teme di tendere la mano e di toccare colui che era considerato intoccabile. Ancor prima di dare la guarigione, la purificazione, Gesù dà un segnale a chi gli sta intorno allora, come per noi oggi.

In un mondo in cui i malati sono spesso messi da parte o considerati “un peso” alla società e a volte anche alla famiglia, Gesù ha compassione e tocca, forse anche abbraccia.

La vera lebbra è la mancanza di questa umanità, l’isolamento che ci rende indifferenti.

Oggi guardando le persone che vivono la malattia, chiediamo sì la guarigione per loro – è umano – ma domandiamo prima di tutto la purificazione dei nostri rapporti, la vera umanità nelle nostre relazioni, la vicinanza concreta.

La Vergine di Lourdes ci aiuti a purificare lo sguardo e a tendere le mani, perché nella prova della malattia nessuno si senta solo e tutti coloro che sono accanto ai malati possano imparare ad amare.

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Il centro della nostra vita è Gesù Cristo crocifisso e risorto.
Siamo qui per una catechesi sulla speranza, visto che Annamaria stava portando avanti, con il gruppetto del lunedì, la catechesi di don Mario sulla speranza. Perché oggi noi celebriamo non la morte ma il compimento della speranza che è l’incontro con Cristo, per sempre. L’immagine del giudizio finale, che ci offre Matteo, con Gesù che, come un pastore, separa le pecore dalle capre, mi fa pensare che Annamaria si metta lì, accanto a Gesù, a suggerirgli che fare: “Questo di qua, questo di là…”
Sì, sarà il compimento della speranza, lì dove non ci sarà più bisogno della stessa speranza e neanche più della fede. San Paolo ci dice che delle tre cose che contano, fede, speranza e amore, la più grande tra tutte è l’amore, perché lì ameremo e basta. Li Annamaria è avvolta dall’amore e ama Dio e noi.
In questi giorni avete sperimentato tanto amore che ha circondato la vostra famiglia.
Una donna forte, una madre per i figli Mario, Paolo, Bruno, Giulia, Andrea, e per le nuore, una nonna orgogliosa dei nipoti, da Emanuele a Mattia, nell’amore, nella correzione, nel rimprovero, soprattutto nella preghiera.
Sono certo che in questo momento vorrebbe tanto parlarci lei, con il suo vocione particolare, e dirci che è nella pace, nello stupore di un incontro, e che, anche se si è arrabbiata per la sofferenza, perché non voleva morire, ora è serena. Non solo, è proprio felice.
Annamaria aveva la capacità di essere a volte simpatica e antipatica alle stesse persone, e conoscendola, sapevamo tutti che eravamo nel suo cuore. Quanti di noi, oltre ai suoi familiari, siamo stati il suo amore, il suo tesoro. Grazie, Annamaria.
Perché hai scelto di legare la vita tua e della tua famiglia a questa comunità, al Centro Giovanile, nella via del Vangelo. Grazie perché hai voluto, a volte con fermezza, non muoverti mai da qui, da questa tua famiglia allargata che è stata il Centro, e, abituata ad una famiglia numerosa, ne volevi una più grande ancora. Qui tutti ti erano figli e nipoti. Diventando animatrice, hai riscoperto la gioia e la fatica di essere moglie, madre, sorella, confidente di tanti. La tua vocazione. Non sei stata una santa, avevi – come noi, tante fragilità e debolezze – ma eri capace di ammetterli, nella certezza che Dio ci ama così come siamo.
Mi hai raccontato, più di una volta, un episodio forse non da tutti conosciuto. C’è stato un momento in cui eri in forte dubbio. In cammino con il tuo Leandro in una comunità a San Timoteo, eri già impegnata qui con don Mario, e, probabilmente, non sapevi a chi dare i resti, non volendo lasciare nessun impegno, in particolare il cammino spirituale con tuo marito. Una sera, qui ad Acilia, incontrasti non ricordo se per caso, in un giorno di pioggia, il vescovo di allora, il “grande” mons. Clemente Riva. E prendendo la palla al balzo, come eri solita fare, sottobraccio al vescovo e sotto l’ombrello, facendo con lui una lunga chiacchierata, hai posto a lui la questione. E lui ti ha detto: “Ma il cuore dove ti porta? Segui il tuo cuore”. La risposta – mi hai confidato – fu immediata: con i ragazzi del centro.
E ora, prendendo me sottobraccio, nella mia prima celebrazione esequiale da vescovo – hai ottenuto anche questo primato – permettimi di dirti io: va’ dove ti porta il cuore. Va’ verso Dio, verso Leandro che hai tanto amato e forse anche sopportato, come in ogni matrimonio che si rispetti; va verso don Mario, va’ verso tanti che ci precedono lassù.
E di là, con il tuo sorriso e i tuoi occhi, insegnaci la via di Cristo, ricordaci che senza di Lui non possiamo far nulla. E guarda:
e ti rivedrai, con la sigaretta in bocca, in un angolo del piazzale del centro, a sentire, in modo informale, ma continuo, le confidenze dei ragazzi, con la scusa di fumare con loro; vedrai le tue giornate passate a vivere di famiglia e di comunità, di figli che crescono e di nipoti che si moltiplicano, anche senza preavviso. E di giovani che cercano, in una famiglia più grande, di credere, sperare e amare.
ti rivedrai nella vita con Leandro, tra gioie, dolori, salute e malattia, fino al momento della sua morte. Ti rivedrai sul palco del teatro, o seduta in prima fila a dirigere gli attori desiderando di far ridere e piangere il tuo pubblico, o ad ascoltare compiaciuta qualche canzone di Paolo.
Ti rivedrai mentre accendi la candela di Sant’Anna in attesa del parto delle nuore, o in giro con Giulia con la macchina nella notte della Befana per portare la calza a tutti i figli e nipoti, senza che loro sapessero da dove veniva. Ti rivedrai quando il lunedì “facevi la lunga”, dalle 16 in poi su davanti alla biblioteca – e quanti volontari e quanti ragazzi oggi ti ringraziano – poi al gruppo di catechesi sulla speranza con amiche e sorelle (e oggi sicuramente Ida e Angela ti accolgono lassù) … E poi al teatro; e ti rivedrai in chiesa nella veglia pasquale a leggere la prima lettura – e guai a chi te la toccava, o seduta, accanto al coro, di là.
Ci hai lasciato, nel giorno della nascita del tuo primo figlio. Cinquantasei anni fa sei diventata madre, dando la vita per la prima volta. Ora, attraverso il parto della morte, sei tu a venire alla luce. Sei stata per tanti la “regina”; regina della famiglia, regina “del mondo”, della comunità. Ma tu sapevi bene che la tua unica Regina era Maria, la Madonna di Loreto. Con Lei, nella Santa Casa, aiutaci a dire di “Sì”. Con Lei e con te noi diciamo di nuovo, con profonda gioia: “Io credo, io spero, io amo”.

 

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